Quando ho lasciato la Palestina, Jad mi ha regalato un piccolo quadro con dei fiori secchi. Incollati su un cartoncino ad non era che un mezzo uomo accasciato sul bancone di un bar: a quel colorato, alcuni fiori erano già spezzati, i petali si sbriciolavano. L’ho ringraziato educatamente, quasi rimpiangendo l’epoca in cui Jtempo, tra una sbornia e l’altra, scarabocchiava delle poesie, faceva dei disegni. Ma Jad ha smesso di bere, una ragazza gli ha salvato la vita, quella vita che era appesa a un filo. La maggior parte dei suoi amici sono morti nella lotta, Jad beveva come chi è sopravvissuto controvoglia. Come chi vede sempre intorno a sè gli amici morti. È così che Jad vedeva i fiori recisi sul tavolo della sua cucina. Questo quadro era un tentativo di lutto, un omaggio a chi è rimasto sul bordo della strada. Ma Jad non ha potuto fare che uno schizzo di quadro, cinque anni fa. Un quadro che tengo nelle mie mani, un quadro i cui fiori si sbriciolano. Nella sua cucina ci sono due sacchetti di plastica che non può più toccare, due sacchetti pieni di fiori secchi.
Sono felice di essere cresciuto in una società in cui l’artista può creare, in tutta libertà o quasi, e giocare. È importante. Ogni società ha bisogno di gioco, per evolvere, come un bambino ha bisogno di giocare per imparare. Bisogna proteggere questo spazio di gioco, di civiltà. Proteggere la sua indipendenza.
Ma affermare anche la sua capacità di irradiazione. Mi chiedo se oggi, in Occidente, l’arte è ancora un gioco da bambini, un gioco serio, volontario, a volte pericoloso. Se non è diventata invece il passatempo di qualche vecchietto, al riparo di una casa di riposo. Fanno dei bei quadri di fiori secchi, i vecchietti.
PASCAL JANOVJAK
Scrittore. È membro dell’Istituto Svizzero di Roma, 2011/2012. Vive e lavora a Roma.