Non credo che il ruolo dell’arte sia quello di alimentare i processi democratici di una società, partendo dal principio che l’arte democratica non è. Di certo l’arte, per natura, ha la facoltà di produrre una visione trasversale, autonoma e disincantata, così come ha il potere di sollecitare una diversa consapevolezza sulla realtà sociale e politica di un paese. Ma è necessario che questa funzione le sia riconosciuta dalla società e che lo Stato contribuisca a questo incivilimento consegnando all’arte mezzi, luoghi e opportunità di esprimere la congruità del suo esistere.
In Italia l’arte stenta, curiosamente, a rientrare nella rosa delle attività considerate motori garanti dello sviluppo del Paese, sia sul piano culturale che su quello economico. Il contemporaneo in generale è uno dei primi settori a subire tagli drastici e a sottostare a normative fiscali antiquate e disincentivanti sia per l’operatore professionale sia per gli artisti e per i collezionisti sia pubblici che privati. Oltretutto, ha risentito non poco dell’impegno a singhiozzo della politica e delle istituzioni pubbliche, comprese quelle deputate alla gestione della cultura. Per far fronte a questa situazione si sono costituite recentemente diverse entità collettive: consulte di artisti, curatori e operatori per interloquire direttamente con le istituzioni e per rendicontare lo stato di arretratezza e semi illegalità con cui gli organi pubblici hanno gestito fino ad oggi il sistema cultura. Uno dei punti di dibattito ha riguardato finora le nomine dei direttori di musei o gli incarichi curatoriali all’interno di strutture di competenza comunale e ministeriale, ma nulla di fatto in termini di contestazione in riferimento alle più recenti nomine pubbliche. Il cambiamento principale dovrebbe partire da un risanamento globale dell’etica e dall’individuazione delle micro- (si fa per dire) responsabilità. Negli ultimi anni il dilagare di figure semi-professionali a buon mercato e l’ufficializzazione del volontariato hanno contribuito ad abbassare il livello delle proposte culturali. L’equivoco concetto di no profit, che sicuramente ha costituito una modalità per far fronte alla carenza di supporto pubblico all’arte ha finito per indicare un’entità astratta e hobbistica più che professionale. Questo misunderstanding è stato avvallato paradossalmente e in parte dagli stessi operatori del settore. Il sostegno dei privati ai progetti culturali di queste realtà è stato per lo più morale e discontinuo quando concreto ed economico. Se la mentalità, in generale e nello specifico, non muta è difficile ipotizzare un adeguamento della situazione italiana a quella internazionale e, ancora di più, convincere le autorità pubbliche e private italiane del fatto che l’arte contemporanea abbia effettivamente un potenziale produttivo per incidere sulla crescita economica oltre che culturale del paese; a istituire accordi di collaborazione tra i ministeri della cultura, del turismo, della pubblica istruzione, degli esteri, dell’economia, della finanza. Se le varie consulte pro contemporaneo svolgessero un’azione più compatta (solo a Roma ce ne sono almeno tre) e iniziassero a monitorare l’applicazione effettiva dei doveri di chi opera nell’arte oltre che a rivendicarne la salvaguardia dei diritti, sarebbero più convincenti di fronte alle istituzioni. Di certo un intervento sia strutturale che legislativo andrebbe studiato in termini nazionali e non tanto municipali o federalistici. In Italia le manovre localistiche sono pericolose: il rischio è che si generino ulteriori frammentazioni, scarichi di responsabilità, monopoli e, ancora, nepotismi.
EMANUELA NOBILE MINO
Storica dell’arte, critica e curatrice. Dal 2007 al 2009 è stata co-direttrice artistica della Fondazione Volume! a Roma.
È ideatrice e curatrice di Privato Romano Interno, un progetto annuale di Galleria O.