LA RES PUBLICA AL TEMPO DELLA CRISI

1 Certamente sì, ma in modo capillare e organico, in tutte le forme in cui si manifesta: dai luoghi di formazione artistica a quelli dell’informazione che anziché sostenere le mode, il divismo, la spettacolarità televisiva, il mercato monopolistico e globalizzato, dovrebbe rafforzare la diversità, l’indipendenza di giudizio, il rischio; ai luoghi istituzionali della promozione e dell’esposizione dell’arte sottomessi a un internazionalismo provinciale che maschera il dominio del capitale; agli stessi artisti incapaci spesso di reinventare un rapporto con la società.

2 Oggi gli effetti negativi di tale situazione sono consolidati: le strutture pubbliche prive di budget per programmare le loro attività si trasformano in affittacamere. I programmi degli spazi pubblici per l’arte sono etero determinati da chi ha la possibilità di sostenere le spese di produzione di una mostra d’arte o di uno spettacolo.

3/6 In Italia la crisi ha spinto a riflettere sul concetto di “bene comune”: ha portato a momenti di aggregazione artisti, critici (mi riferisco alla Consulta per l’arte), compagnie e scrittori che, riunendosi in assemblea al Teatro Valle, al Cinema Palazzo Occupato e nelle sedi più diverse, hanno incominciato a discutere del proprio ruolo in quanto categorie sociali, a riflettere sul loro rapporto con le istituzioni, con i luoghi di formazione e sul senso del proprio lavoro. La crisi ci ha portati a riconsiderare il senso di appartenenza a una collettività e a impegnarci in varie forme per difendere valori culturali e ideali acquisiti e conquistati con lotte nel recente passato. In generale ha promosso forme associative, razionalizzazione delle risorse, solidarietà.

7 Il confronto con le istituzioni e le sue regole è inevitabile per  artisti, critici, ensemble produttivi di varia natura. L’indipendenza è un esercizio di resistenza e di ascolto della propria voce e vocazione. L’inquinamento provocato dalle protezioni da parte del sistema politico, l’asservimento della res publica a logiche privatistiche, individuali, di profitto o di un gruppo politico sono pratica comune in Italia, dove il sistema dell’arte non è esente da lottizzazioni, spartizioni, verticismi, accentramenti e monopoli di potere. Al di fuori da queste logiche la sopravvivenza del proprio lavoro è un esercizio di resistenza quotidiana. Ricoprire un ruolo di potere decisionale in un’istituzione culturale nel 90% dei casi non dipende da competenze professionali e artistiche, quanto dall’essere dentro uno schieramento di potere politico. Inoltre c’è da considerare come anche l’indipendenza sia assimilata dal sistema diventando funzionale alla sua sopravvivenza.

8 La politica culturale a Roma è stata segnata, nei momenti di impulso e investimento politico-finanziario, da una personalizzazione del progetto culturale da parte dell’amministratore d’avanguardia — l’era nicoliniana — che ha investito dove il successo era prevedibile e le risorse impiegate restituivano un sicuro ritorno d’immagine (il centro piuttosto che le periferie) e di investimento. Le procedure consultive hanno amministrato solo una progettualità priva di incidenza realizzativa, ovvero priva di risorse economiche (le periferie e i municipi).

9 Non tanto manipolati, quanto ignorati nei loro bisogni (residenze, studi e  locali dove poter sviluppare il proprio lavoro a condizioni agevolate). Gli artisti (musicisti, attori, registi, scultori, poeti) non trovano accoglienza, attenzione e spazi di discussione per le loro proposte da parte dei vari direttori che gestiscono teatri e spazi pubblici espositivi. La res publica, l’istituzione culturale e artistica, è governata da interessi personali. Mettersi in ascolto della città e delle forze vive che la abitano, la esprimono e riconfigurano nei vari linguaggi non è un esercizio praticato da coloro che ricoprono un potere gestionale.

VALENTINA VALENTINI
Docente di Teorie dell’immagine elettronica all’Università La Sapienza di Romae al DAMS dell’Università della Calabria.