Per circa vent’anni ho gestito istituzioni molto diverse tra loro, assistendo all’ incredibile trasformazione dell’arte contemporanea. Se all’inizio eravamo fuori dalla scena internazionale (salvo rare eccezioni come la Biennale di Venezia), oggi abbiamo un tessuto diffuso sul territorio, in cui la questione del localismo è centrale, sia per cultura che per storia. Le migliaia di realtà – attivissime e molto professionali – rappresentate dalle numerose associazioni, fondazioni e progetti spontanei di artisti, così come i musei, hanno permesso a un contesto carente dal punto di vista istituzionale di creare una vera e propria rete di rapporti locali e internazionali, che hanno condotto alla maturazione dell’arte contemporanea in Italia e che oggi si deve confrontare con le realtà internazionali. Per questo dobbiamo dare inizio a un ragionamento preciso sulla prospettiva delle istituzioni che tenga in considerazione limiti e obiettivi. A questo proposito, il tema del collezionismo è centrale. In Italia, il patrimonio dei collezionisti è decisamente più importante della maggior parte dei musei di arte contemporanea. Al collezionista non basta più essere un privato ma vuole avere una sua riconoscibilità istituzionale – questo spiega lo straordinario proliferare di nuove fondazioni più di recente. Inoltre il collezionista sembra richiedere un confronto con le istituzioni pubbliche, che in Italia sono deficitarie, proprio perché i musei non hanno mai avuto un’identità così forte da permettergli di dialogare con i privati – come accade in nord-America, dove il rapporto tra privati e musei è molto forte. In Italia, questo dialogo sta crescendo, diventando mano a mano più solido. Arrivato al Macro mi sono confrontato con la situazione estremamente difficile – ma anche molto positiva – di un museo senza identità: la parte realizzata da Odile Decq è stata inaugurata solo nel dicembre 2010. Si è reso necessario ripensare completamente questa istituzione. La priorità è stata quella di aprire il museo alle persone, immaginando spazi nuovi come luoghi espositivi e trasformando il vecchio museo in atelier per artisti, ponendoli così al centro delle nostre attività nell’ambito di un processo che vede il pubblico sempre più vicino all’arte contemporanea. È urgente riflettere sull’apertura e il funzionamento dei centri di arte contemporanea, interrogandoci sulla missione e sulla necessità di queste istituzioni, sulle politiche relazionali e il marketing territoriale. A questo proposito, potrebbe essere utile immaginare delle forme ibride tra musei, centri di produzione e scuole di formazione, perché non ha più senso che questi spazi operino separatamente. Si potrebbe attivare un nuovo ciclo economico legato all’educazione, alla possibilità di produzione e di ospitalità per immaginare nuove forme alternative nella gestione dei finanziamenti. La situazione italiana, nello specifico, è molto particolare se paragonata a realtà centralizzate come la Germania o l’Inghilterra: non abbiamo un’identità nazionale forte ma delle realtà frammentate e locali. La cultura subisce questa frammentazione, moltiplicando le realtà più piccole e interessanti, responsabili della grande vitalità di questo territorio. L’Italia rappresenta un caso estremo di centralizzazione e frammentazione. Sono stato testimone della crescita verticale della situazione dell’arte contemporanea a Roma, non soltanto per l’apertura dei musei MAXXI e Macro, ma per tutto quello che questa situazione ha generato. Il tessuto sta crescendo moltissimo e sta recuperando il rapporto con la sua storia attraverso artisti come Alighiero Boetti, Gino De Domincis, Jannis Kounellis e Pino Pascali.
BARTOLOMEO PIETROMARCHI
Direttore del Macro dal 2011.