Diventa sempre più difficile rispondere a questo tipo di domande perché gli anni passano, ma le cose restano più o meno le stesse e non penso più che cambino solo perché Roma oggi ha più musei, più gallerie, più spazi indipendenti o per la capacità di collaborare e fare rete che, a queste latitudini, è un po’ una vocazione, un po’ una necessità. Nel nostro paese sono mancate per anni e negli anni politiche culturali per l’arte contemporanea, ma il problema vero è che manca un pubblico allargato, attento e consapevole. La collettività non è solo il recipiente passivo dell’opera, ma può diventare un committente e, ancora di più, un garante della cultura. Se chiude un museo non è solo il pubblico specializzato che dovrebbe indignarsi ma anche il cittadino, perché di fatto è a quest’ultimo che vengono sottratti beni che – per statuto – gli appartengono. Quando non sono chiari i meccanismi di nomina dei suoi direttori, commissari e curatori, potrebbe essere la collettività a chiederne conto. A volere che fondi pubblici possano essere erogati secondo principi di trasparenza e eccellenza potrebbe essere chi, quei fondi, li versa sotto forma di tasse e se li vede restituiti come offerta culturale. Il problema di fondo della comunità artistica consiste nel fatto che è piccola e chiusa, oltre alle difficoltà di rappresentatività e di rappresentazione nella società civile. Siamo gli uni, a turno, interlocutore e pubblico dell’altro e rischiamo di diventare lo specchio di quelle istituzioni politiche le cui pratiche tanto critichiamo. Negli anni Settanta, Pierre Bourdieu affermava, dati alla mano, che quelle istituzioni costruite all’inizio dell’Ottocento per favorire l’inclusione sociale erano di fatto dei dispositivi esclusivi e, pertanto, fruiti solo da quelle classi che per censo e nascita ne costituivano committente e destinatario. Di questa esclusività ha sofferto in misura maggiore la produzione culturale contemporanea, perché se l’arte mette in immagine ciò che noi viviamo, una società che ha difficoltà a rappresentarsi o a leggere le proprie immagini dà segni di scarsa salute. Su Frieze, qualche mese fa, parlando dell’occupazione del Teatro Valle, il critico Mike Watson sosteneva che questa esperienza costituiva “un impegno che va oltre il campo specifico della cultura e che mette in discussione le premesse politiche che determinano decisioni in campo sociale, non solo culturale”. A mesi di distanza, il Valle può essere qualcosa a cui guardare come a un esempio. Questo teatro nel centro di Roma occupato dopo una lunga chiusura e la cui programmazione dialoga da mesi con tutti i campi del sapere (I frutti puri impazziscono), ha riportato in primo piano un concetto bellissimo e spesso dimenticato: quello di “bene comune”. È a partire da questa parola che il collettivo del Teatro Valle sta cercando di diventare una fondazione con la base allargata e più ampia possibile. Per occuparsi di cultura bisogna essere in tanti, e occuparsi di cultura è un esercizio di democrazia.
CECILIA CANZIANI
Co-curatrice di Nomas Foundation, Roma. Tra i fondatori nel 2006 di 1:1 projects.