ISTITUZIONI E DEMOCRAZIA

Le istituzioni rappresentative e i partiti che dovrebbero gestirle non godono al momento, in Italia, di buona salute né di buona fama. In particolare, solo il 4% dei cittadini, secondo i sondaggi più recenti, ha una discreta fiducia in essi. Il Parteienstaat è al capolinea e i candidati commissari si affollano. Questa almeno è la situazione italiana e davvero non saprei se considerarla un laboratorio politico d’avanguardia, dove si manifestano i problemi e le soluzioni che nei prossimi anni dilagheranno in tutto l’Occidente oppure se si tratta di un caso-limite di degenerazione, in un’area marginale e recessiva rispetto al nucleo forte europeo e ancor più rispetto agli USA obamiani e ai BRICS in ascesa. Il declino della sovranità classica, l’avvento di una governance tecnocratica, lo spostamento dei centri decisionali dagli Stati-nazione a entità sovranazionali e a strutture finanziarie prive di qualsiasi rappresentatività popolare sono invece tratti comuni a tutto il Continente. Così come molto simili sono state alcune forme di protesta e resistenza che in genere potrebbero definirsi con il nome di “tumulti” – termine non a caso impiegato anche in relazione ai sommovimenti nord-africani che hanno rovesciato o limitato i locali regimi autoritari nel pieno di una crisi strettamente collegata alle politiche neoliberiste e al fallimento della società della conoscenza. Vale forse la pena di fare una riflessione che vada oltre la semplice descrizione e magari l’entusiasmo generoso quanto frettoloso per una stagione di cambiamenti repentini. Quando parliamo di tumulto – un termine che Machiavelli traeva, nei Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, dalla storia della repubblica romana e che viene trasmesso tramite Spinoza e Algernon Sidney al repubblicanesimo atlantico – ci riferiamo a una specifica idea di corpo politico, per cui dentro ogni città ci sono delle parti, delle aggregazioni, dei gruppi. Il corpo politico è misto, cioè attraversato da relazioni di potere e la città non è mai uno spazio liscio né pacificato, ma attraversato da differenziali di potenza che non esauriscono la loro energia e il loro antagonismo una volta che si istituisce un’unità politica, ma restano sempre con una carica squilibrante, innovativa. Il tumulto genera istituzione – Machiavelli fa l’esempio del tribunato, quale frutto del contrasto tumultuoso fra patrizi e plebei –  in quanto il suo aspetto destituente e catartico (imprevedibilità, inafferrabilità, defezione dal progetto) non è gesto istantaneo fine a se stesso e al contempo non si risolve senza residui nell’origine dell’istituzione. Si tratta infatti di un potere costituente (così definito a partire da Emmanuel Joseph Sieyès), cioè di un momento conflittuale extragiuridico, mai pienamente giuridificabile ma sempre in tensione con il potere costituito. L’istituzione non revoca mai in via definitiva il conflitto. I tumulti si ripropongono modificando, plasmando, reinventando daccapo le forme istituite. La democrazia, intesa quale insieme di istituzioni e movimento che incessantemente le produce e modifica, è una pratica collegata al tumulto e all’inclusione delle parti che via via emergono e si danno nome – entrano in conto, secondo l’espressione di Jacques Rancière –, mentre dove c’è tumulto non c’è mai disordine puro ma produzione positiva di istituzioni. Insomma, la democrazia non è solo un insieme di procedure, ma in primo luogo è un assetto espansivo, che abbraccia tutto il nuovo emergente dalle contraddizioni sociali e dall’innovazione degli stili di vita e delle istanze di partecipazione. Democratico è ciò che include l’escluso ed esclude gli ostacoli all’inclusione. Lo dice Luca 1, 46-55, e lo musica il Magnificat di J. S. Bach: deposuit potentes de sede,  / et exaltavit humiles; / esurientes implevit bonis, / et divites dimisit inanes.
Il tumulto mette in discussione il posto dei dunastás apò thronon e i ploutoûntas (un greco comprensibile anche alla trojka europea, se volesse) ed eleva i tapeínous. La crisi della sovranità e della rappresentanza e la loro tendenziale sostituzione con il comando amministrativo erode dall’alto le istituzioni e le funzionalizza alla logica della rendita finanziaria. Ci vanno subito di mezzo le meno “utili”, le istituzioni culturali che vengono abbandonate per prime quando l’ortodossia monetaria e la miopia produttiva impongono tagli della spesa. L’autogestione di organismi culturali è così, per lo più, occupazione di spazi abbandonati, riaggregazione di forze scartate come superflue e osteggiate in quanto avverse a dinamiche di pseudo-produttività, ovvero della fusione di rendita e profitto. Sia nei contenuti culturali che nella forma obbligata dell’autogestione, il desueto discorso meta-politico sulla democrazia diventa di colpo prassi democratica effettiva, che satura il vuoto procedurale con alternative politiche, con gli affetti e la condivisione cooperante delle differenze. Allo stesso tempo la spinta tumultuaria si dà forma, il disordine creativo si trattiene nella produzione di regole, parla alle residue articolazioni della società civile accrescendo la propria rete di consistenze e di alleanze, si fa realmente voce del 99%. Questo vale tanto nei casi di abbandono quanto di mantenimento centralizzato delle istituzioni culturali (dunque di occupazione o co-gestione come risposta). Sulla stessa linea si pongono gli episodi di resistenza alla censura e al controllo amministrativo delle espressioni politiche e culturali che si sono verificati di recente in Ungheria, in Ucraina e nella Repubblica russa. Si profila così una lotta comune per un’Europa comune della cultura e delle istituzioni, che scavalchi la triplice barriera di Schengen, dell’area euro e del riconoscimento CEE. Il pensiero unico neoliberista è scassato, sia pure per il momento ai margini, perde terreno nell’opinione pubblica, impatta su una logica dei beni comuni e dell’uso comune delle istituzioni cui non era preparato. All’occasione si scatena una “guerra all’intelligenza”, che si articola sul terreno istituzionale con la riduzione della spesa pubblica “improduttiva” per il sistema scolastico e la ricerca e con la ristrutturazione aziendalistica verso il basso dell’Università (il Bologna process), e sul terreno mediatico con accessi di anti-intellettualismo demagogico che riprendono le campagne antisovversive degli anni Cinquanta dello scorso secolo contro il “culturame” e le eggheads. Un tocco che non stona mai, quando si vogliono salvaguardare rendite e privilegi facendo appello agli esclusi da una cultura con limiti classisti. Non a caso l’obbiettivo di tali campagne sono oggi gli artisti, i movimenti degli studenti e tutti quanti difendono i beni comuni. Il tratto fondamentale di molte delle contro-condotte che contrastano in modo strisciante i guasti della governance finanziaria è il richiamo al “comune”. Su questo tema è stato fatto molto lavoro teorico, sullo sfondo di una storica propensione dei movimenti e delle ideologie di sinistra a privilegiare la proprietà comune e comunitaria rispetto all’appropriazione privata –omnia sunt communia è parola d’ordine corrente nel millenarismo religioso antifeudale (i gioachimiti, gli Spirituali francescani), nelle rivolte contadine (da John Wyclif a Thomas Müntzer), agli albori del movimento operaio. Le delusioni e poi lo smantellamento dei regimi di Stato sociale keynesiano, in cui le distorsioni della proprietà privata erano state compensate dall’intervento pubblico, hanno indotto a una netta (seppure non oppositoria) distinzione fra pubblico e comune, disancorando quest’ultimo da una mitologia e da una prassi statalista e conferendo un nuovo ruolo a iniziative provenienti anche dal settore privato e no profit.  Questo dal punto di vista della teoria. La novità, però, è che si sono coagulate vertenze su obbiettivi specifici concreti, per esempio a sostegno della (ri)pubblicizzazione dell’acqua su base locale, avviata in America Latina con l’esperienza di Cochabamba (Bolivia) e rilanciata in Europa (da Parigi e Berlino a Napoli) contro il tentativo delle grandi corporations di mettere le mani su una risorsa indispensabile e universale. In entrambe le aree si sono prodotti effetti  notevoli, che hanno modificato la realtà politica e perfino costituzionale,  imponendo una battuta d’arresto alle strategie neoliberiste –come è avvenuto in Italia con i referendum che in nome dei beni e degli interessi comuni hanno bocciato privatizzazione dell’acqua e centrali nucleari, mobilitando ben 27 milioni di elettori, non certo una sparuta minoranza di “utopisti”. Esperienze quali l’occupazione del Teatro Valle e strutture consimili, evolute nella formazione di fondazioni per la gestione comune, mostrano l’estrema rilevanza di tali pratiche proprio nel settore culturale.
Chiudiamo su un simbolismo suggestivo in questi tempi di crisi: acqua e cultura potrebbero essere due campagne sui beni comuni da sviluppare a livello europeo, quasi a indicare la resistenza al neoliberismo sul doppio terreno del corpo e della mente che aveva cercato di colonizzare.

AUGUSTO ILLUMINATI
Ha insegnato Storia della filosofia all’Università di Urbino fino al 2009. Fra le sue pubblicazioni: Sociologia e classi sociali (Einaudi, 1967), Gli inganni di Sarastro (Einaudi, 1980), Winterreise (Dedalo, 1984), Tumulti (DeriveApprodi 2011).