APOTEOSI E CRISI DEL MUSEO COME STATUS SYMBOL

Chiunque abbia avuto la fortuna di trovarsi a Roma nell’ultimo weekend di maggio del 2010 non può non ricordare l’euforia di una città che si sentiva, finalmente, contemporanea. L’inaugurazione trionfale e, inevitabilmente, fragorosa di polemiche e di zelanti servizi di sicurezza del MAXXI, il monumentale Museo nazionale delle Arti del XXI secolo progettato da Zaha Hadid nel quartiere Flaminio, quasi ventisettemila metri quadrati di arte e di architettura da tempo attesi e discussi (il bando per un meno altisonante Centro nazionale per le arti contemporanee risaliva al 1998); l’affollata preview dell’ampliamento degli spazi del Macro, il Museo comunale di arte contemporanea di Roma che, nato nel 1999 da una felice operazione di recupero degli stabilimenti Peroni trovava una nuova, più trasparente e, assieme, decisa fisionomia grazie alla firma dell’architetto francese Odile Decq; l’apertura, meno rumorosa eppure significativa, della terza edizione della fiera di Roma – The Road to Contemporary Art che, dopo deludenti tentativi di disseminazione nei palazzi e nei monumenti del centro storico, aveva trovato infine ospitalità istituzionale nella sede del Macro al Testaccio (e, per inciso, quella tra musei e fiere è ormai da qualche anno una partita di giro che andrebbe seguita con più attenzione): sono questi i tre eventi, le tre occasioni, molto diverse per significato e rilevanza internazionale, che nel giro di un fine settimana sembravano aver sancito definitivamente il risveglio della città di Roma dal lungo e confortevole sonno antico a cui una politica senza immaginazione l’aveva abbandonata con troppa facilità. Agli inizi di questo decennio la capitale italiana è apparsa così ipermediatica protagonista di un fulmineo scatto in direzione del futuro o, almeno, del presente delle arti, una (apparente?) fuga in avanti che però a uno sguardo meno superficiale più che un momento inaugurale appare in realtà l’esito e, forse, l’epilogo, di un processo che ha interessato l’Italia nell’ultimo scorcio del secolo scorso.
Pur riconoscendo il valore di alcune esperienze pionieristiche che, come tali, hanno ormai consumato il loro potenziale innovativo e si sono, nei casi migliori, trasformate in nuove realtà museali – così è accaduto, ad esempio, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, la cui storica eredità è stata raccolta e rilanciata dal Mambo nel 2007 – è infatti soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del Novecento che il sistema dell’arte contemporanea in Italia, tradizionalmente legato al lavoro delle gallerie private e alla presenza di un collezionismo piuttosto vivace, ha conosciuto un sempre più intenso fenomeno di istituzionalizzazione, un crescente interesse da parte delle amministrazioni locali che ha portato nel corso di pochi anni alla nascita di una serie di musei per l’arte del presente. A partire da aree considerate periferiche – nel 1984 si apre nella provincia torinese il Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea, fra i primi esempi in Italia di gestione pubblico-privato, nel 1987 nasce il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, la cui sede, progettata da Mario Botta, sarà inaugurata nel 2002 a Rovereto, nel 1988 si inaugura a Prato il Centro per l’Arte contemporanea Luigi Pecci, oggi Museo Regionale Toscano per l’Arte Contemporanea – il rapido e persino tumultuoso sviluppo di spazi museali per l’arte contemporanea ha via via interessato contesti e situazioni molto differenti, dalla Sardegna, dove viene istituito nel 2003 il Man – Museo Arte della Provincia di Nuoro, alla Campania, dove a Napoli, città che tuttora può vantare alcune fra le gallerie italiane storicamente più importanti, nel 2005 nasce (e oggi forse muore) il regionale museo Madre (Museo d’arte contemporanea Donnaregina), senza dimenticare il Museion di Bolzano, il Musma di Matera e il più recente – e forse prevedibile – Museo del Novecento di Milano. Un crescendo francamente impressionante di inaugurazioni – non ha avuto torto Karsten Schubert a definire il museo d’arte contemporanea uno “status symbol urbano” – che proprio a Roma ha trovato, credo, la sua apoteosi e il suo punto critico.
Al di là degli orientamenti specifici che hanno determinato e anche trasformato la politica dei due più recenti musei d’arte contemporanea della capitale, a cui fa da controcanto l’impegno, consolidato e per vocazione meno disposto agli azzardi del presente, della Galleria Nazionale di Arte Moderna, la situazione romana appare in qualche modo esemplare della condizione interlocutoria e problematica che caratterizza le istituzioni italiane per l’arte contemporanea. Se da un lato il MAXXI, con le sue due anime – arte e architettura – e i suoi spazi imponenti è un ipermuseo complesso e necessariamente contraddittorio, in cerca, anche attraverso lo strumento della fondazione, di un sempre incerto equilibrio fra le ragioni espositive e comunicative e quelle dell’acquisizione e della cura di una collezione di respiro internazionale, dal canto suo il Macro, forte anche delle possibilità offerte dalla sede nell’animato quartiere Testaccio, prova a interpretare in maniera maggiormente elastica il proprio ruolo di museo comunale, nel rapporto con il territorio e nel lavoro di informazione e produzione scientifica, oltre che attraverso l’avvio di progetti di residenza per artisti che non solo estendono la funzione espositiva anche alla produzione dell’opera, ma sollecitano nuove pratiche di educazione e di coinvolgimento della città. Una scelta, quest’ultima, che intercetta e connette proposte e percorsi di ricerca di cui a Roma sono state soprattutto le fondazioni per l’arte contemporanea a farsi promotrici, sperimentando, con sensibilità diverse, modalità più libere e contaminate di intervento artistico, espositivo ed educativo. La Fondazione Volume!, già attiva alla fine del secolo scorso, e la Fondazione Pastificio Cerere, a cui negli ultimi anni si sono affiancate la Nomas Foundation e la Fondazione Giuliani per l’arte contemporanea, entrambe nate, secondo una prassi oggi sempre più diffusa, a partire da una collezione, sono attori molto presenti sulla scena artistica romana, non soltanto contribuendo alla disseminazione di esperienze artistiche nel tessuto della città, con particolare attenzione a quello più periferico e marginale, ma anche creando opportunità di confronto e di relazioni internazionali. Un impegno che supplisce in qualche modo, e seguendo criteri ovviamente parziali, all’incapacità cronica delle istituzioni pubbliche italiane di supportare lo sviluppo della produzione artistica contemporanea in Italia sostenendola non solo – non tanto – con premi e commissioni quanto con un costante e capillare lavoro di tessitura di rapporti e di scambi con le istituzioni degli altri paesi. Un compito che, nel “Global Art World”, non è un’eventualità o una strategia di marketing ma la condizione stessa di esistenza per un museo che non voglia essere un gadget urbano o una forma, magari elegante, di “junkspace bigotto” (Rem Koolhaas) ma un dispositivo critico in grado di sollecitare domande ad arte per un mondo in incessante, e comunque ineludibile, trasformazione.

STEFANIA ZULIANI
Docente di Storia e teoria del museo contemporaneo all’Università di Salerno. Critica d’arte, collabora con la Fondazione Filiberto Menna, Salerno.