COME DIMORARE TRA LE ROVINE

Assumiamo la prospettiva di coloro che si muovono sul confine che separa la produzione artistica da quella politica. Da questo osservatorio, vero laboratorio di pratiche, è possibile decretare la fine del “mondo dell’arte“ inteso come quell’ambito circoscritto e separato dai contesti in cui opera, incaricato dal sistema pubblico, l’attività artistica. La promozione di un discorso “organizzato dallo Stato” sull’arte, sulla sua produzione e conservazione, può essere aggiunto definitivamente tra le macerie del secolo appena trascorso. Questo modello, che ha prodotto forme di grave sotto-finanziamento e di gigantismo senza costrutto, oltre al clientelismo, all’incapacità progettuale e al servilismo culturale, oggi sembra essere saltato. Grandi istituzioni culturali chiudono, sono dismesse o inserite dentro la macchina infernale della speculazione immobiliare. Persino il risibile 0,3% del PIL destinato dal nostro paese alla cultura appare un lontano ricordo. La retorica del mercato non è intervenuta, come forse qualcuno sperava, a raddrizzare questo meccanismo, bensì ne ha approfondito drammaticamente alcuni aspetti deleteri. Allo stesso tempo, la narrazione legata alla crisi si è unita alle trasformazioni nella sfera della sovranità, alimentando una spirale depressiva che rischia di prendere alla sprovvista quanti non sono pronti a cogliere il nuovo piano della sfida di fronte a noi. Questo scenario rimanda direttamente alla politicità dell’arte. Laddove emergono forme nuove di governo e autogoverno, nei territori reali o simbolici, metropolitani o nomadici, la produzione artistica non può non misurarsi con tale processo diventandone, anzi, parte essa stessa. In altre parole, le istituzioni del mondo dell’arte, se hanno un senso, non possono che essere “istituzioni del comune”: luoghi di conflittualità culturale e continua contrattazione “tumultuaria” rispetto ai termini della loro stessa esistenza, capaci di rompere i propri confini, decisamente angusti da oltre un secolo. I laboratori di queste originali forme istituzionali sono già attorno a noi, nelle nostre città: sono gli spazi liberati e i teatri sottratti alla retorica della cultura nazionale e della valorizzazione del mercato – che poi è quasi sempre quello immobiliare. Sono la richiesta di un reddito di esistenza e cittadinanza per quel lavoro intermittente, linguistico e relazionale un tempo appannaggio di poche categorie di intellettuali e di artisti, che oggi rappresentano la stragrande maggioranza della fabbrica in cui viviamo, e in cui dobbiamo immaginare nuove forme di conflittualità e di trasformazione.

DAVIDE SACCO
Fa parte di ESC Atelier Autogestito, occupato nel 2004 e composto principalmente da studenti, ricercatori e precari. Centro di ricerca e di elaborazione politica, ESC è un luogo di organizzazione del lavoro precario e delle lotte sociali a livello metropolitano, europeo e globale.