PRIMATI DISORDINATI

Non voglio e non posso fare l’analisi o la critica di un sistema, perché non è mio compito dirvelo con le parole. Come artisti abbiamo imparato a utilizzare il linguaggio del potere e a usare le parole altrui, ma così abbiamo messo da parte l’immagine, l’abbiamo sottoposta a una banalizzazione nel corso di un qualunque processo di comunicazione e assottigliata fino a renderla trasparente. Abbiamo spostato l’arte in un luogo sempre più lontano, facendo sì che si comportasse sempre più con i modi della politica e delle istituzioni, e sempre meno come se stessa. Abbiamo perso l’ironia della nostra posizione che non appartiene a un pensiero maggioritario ma al nostro stare nel mondo, siamo diventati troppo adeguati per rovesciare i sistemi di mercato governati da quel capitale che imponeva “valore” al nostro “non-valore”. Abbiamo tralasciato l’immagine perché non credevamo più che fosse l’arma più efficace e abbiamo smesso di lavorare servendoci delle nostre braccia. Dopo aver cancellato il disegno, ora ci troviamo ad arrangiare sul foglio quei pochi residui anneriti di gomma. L’opera deve esistere prima delle istituzioni e dei dibattiti culturali, prima degli spazi museali. Non possiamo dire “io voglio fare” perché è nel “fare” che nasce la nostra posizione. Io voglio partecipare all’odore di questa città, al suo scorrere e al suo fermarsi. Per un artista, l’opera è la sua istituzione: consiste nel solo fatto di lavorare, nel semplice gesto e nella semplice traccia. Il nostro valore all’interno della società e la nostra anarchia risiedono nel segno. L’opera è il museo di se stessa, impregnata di senso e di collettività, di solitudine e istinto di conservazione. È l’esperienza, nella sua ripetizione e nella sua ripetibilità, a essere importante. È il lavoro, con la sua profonda vitalità, a essere essenziale. Gli artisti devono essere come dei sismografi, registratori di presenza, instancabili lavoratori.
Noi parliamo un’altra lingua.

TOMASO DE LUCA
Artista .Vive e lavora a Roma