(ITA) Sulla settima Biennale di Berlino di Pascal Janovjak

Sulla settima Biennale di Berlino

Un dialogo improbabile
Banksy : Art is a rest home for the overprivileged, the pretentious, and the weak. Never have so many people used so much stuff and taken so long to say so little.
Zmijewski : Yes… But we don’t need philosophical Newspeak to go into the streets and spray-paint buildings with the alphabet of freedom.
Banksy : …
Zmijewski : The goal is pragmatic – the creation of social and political facts ; real action in the real world and a final farewell to the illusion of artistic immunity.

Opere che agiscono ?
Khaled Jarrar ha disegnato un timbro che raffigura una specie di colibrì, circondato dalle parole « State of Palestine », in inglese e in arabo. Propone ai visitatori di stamparlo sui loro passaporti.
Ma in che modo questa è arte ? si chiede un amico pittore. Gli rispondo che qualunque attivista pro-palestinese esigerebbe la fine dell’occupazione israeliana, la creazione di un nuovo Stato, il quale Stato avrebbe delle frontiere definite, un governo ed un sistema amministrativo complicato che potrà, in fine, decidere di creare un timbro. E’ appunto un procedimento artistico che permette a Khaled di contorcere il reale (e guadagnare così qualche decina d’anni).
Ma per quale « effetto reale » ? Senza giudicarne la qualità, l’arte politica non saprebbe avere che un effetto di sensibilizzazione, di promozione, di propaganda. E la propaganda è utile… Quest’anno le 80.000 persone attese alla Biennale saranno sensibilizzate al problema delle frontiere israeliane. Così come alla natura del potere bielorusso. Alle origini della criminalità in Messico. All’esodo di quattordici milioni di Tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Alla classificazione internazionale dei gruppi detti « terroristi », al peso della religione in Polonia, alla colonizzazione continua del Congo, alla gestione della memoria del genocidio ebraico, al potere della censura in Ucraina, alle elezioni in Russia, alle ineguaglianze a Berlino… E non solo.

Gentili volontari
Durante la conferenza stampa della Biennale, alcuni giovani attivisti prendono la parola. Espongono le loro rivendicazioni, tentano poi di trasformare la conferenza stampa in dibattito politico, invertendo i ruoli, interrogando i giornalisti sulle loro condizioni di lavoro, i loro impegni. Sono maldestri. L’imbarazzante confusione del loro intervento contrasta con la presa di parola di un rispettabile giornalista dai capelli bianchi. In un inglese impeccabile, le sue parole risuonano nella sala attenta : Credo che non siate altro che dei giovani privilegiati. Io ho sempre dovuto guadagnarmi da vivere. Lo faccio esercitando la professione di giornalista. I vostri discorsi non mi interessano. Sono qui per lavorare.
Era desolante vedere come il dilettantismo degli attivisti dava ragione a questo orrore, annunciato con tanta calma dal distinto signore, accettato con tanto sollievo dalla sala: che il valore di un’attività umana non potrebbe essere giudicato che dalla sua remunerazione.

Parole, parole
Sono riuniti nella sala che i curatori hanno dato loro, al centro di un gran caos militante, stands, televisori, tenda, graffiti con slogans sul muro. Seduti per terra, in cerchio, sono tedeschi, olandesi, spagnoli, polacchi o americani, di tutte le età, sfoggiano foulards multicolori e tatuaggi, hanno i capelli tinti o le trecce lunghe, parlano tutte le lingue, ma è in inglese che discutono. Per sapere come organizzare la pulizia della corte dell’edificio. Secondo Piercing Estremo bisognerebbe formare un « cleaning group », cosa che fa sogghignare un tizio in maglietta nera, accanto a me. Capellone alza la mano : nessun « cleaning group », la pulizia dev’essere la responsabilità di ognuno, ognuno può raccogliere le bottiglie di birra da terra, si può fare spontaneamente. Foulard Giallo è più radicale, rifiuta di aiutare gli impiegati del bar della corte : siamo liberi, non dobbiamo pulire la corte, non dobbiamo collaborare con il proprietario del bar.
Tutto sembra una messinscena, un gioco di attori – dal fondo della sala risuona a intervalli regolari la voce di una matta che urla qualcosa a proposito di bidoni dell’immondizia svuotati male, di cose che ha messo a posto e che non trova più. Accanto a me, Maglietta Nera sogghigna.

Storia nella storia
E’ nel lavoro di Pawel Althamer che si concentra la problematica della Biennale di Berlino. Althamer occupa lo spazio di una grande chiesa sconsacrata su Invalidenstrasse. Non ci sono più mobili, le pareti sono ricoperte di pannelli bianchi sui quali i visitatori sono invitati a disegnare. Assomiglia a un gioco da bambini, c’è un piacere evidente nell’idea di appropriarsi di queste immense superfici vergini. Molto in fretta i disegni si moltiplicano, interagiscono, si ricoprono e si rispondono. Ho fatto quest’esperienza singolare : trovarsi di fronte al muro, con un pennarello in mano, applicato all’elaborazione di un piccolo disegno. E poi indietreggiando di due passi mi sono ritrovato davanti l’enormità del muro variegato e l’insignificanza del mio intervento. Bella riflessione sullo spazio dell’individuo nelle nostre società, sull’illusione della sua importanza.
Ma sotto la copertura di schizzi infantili, è anche una versione dell’inquietante esperimento di Milgram quel che avviene qui dentro. Althamer ha iniziato disegnando una semplice croce, in fondo al coro – è il punto di partenza del suo « Draftmen’s congress ». E’ anche un’abile deviazione, che fa dimenticare il disegno più importante : la riproduzione della sua carta d’identità, su un muro laterale. Se l’autorità religiosa è stata immediatamente negata dai partecipanti (è stata aggiunta una donna nuda alla croce, vi è stato appeso un cappellino), l’immagine dell’autorità reale del luogo è rimasta immacolata. Il quarto giorno qualcuno ha aggiunto un lupo, a bocca aperta – una freccia nera collega l’animale al viso dell’artista. Mi chiedo quanto tempo passerà prima che qualcuno osi trasformare, ricoprire, cancellare l’autoritratto del maestro.

Matrioske
Ciò che avviene nel microcosmo della chiesa di St Elisabeth si ripete nella sala occupata dagli attivisti, e nella Biennale considerata nell’insieme delle sue esposizioni : la lotta tra l’uno e il multiplo.
Due giorni dopo l’inaugurazione, una serata riunisce i rappresentanti delle istituzioni solidali alla Biennale. Sono più o meno svizzeri, italiani, polacchi, svedesi o tedeschi, curatori o direttori di musei. In gioventù avevano forse i capelli lunghi, foulards rossi e camicie bucate. La maggior parte si incontra qui per la prima volta. Invece di esporre il suo progetto, Capelli Arruffati pone una domanda ai curatori della Biennale e dà il via a un dibattito interno privo di senso. Montatura Nera gli dice di star bravo. Non sembrano troppo sicuri di cosa ci fanno lì, nè di cosa facciano i loro colleghi. Senza volerlo, Coda di Cavallo confessa questa cosa impossibile : che non capisce affatto l’evento che la sua istituzione finanzia, e di cui si dice tuttavia la curatrice.
Sicuramente sono meno divertenti dei giovani attivisti, perchè la lotta dei loro ego è più civile e tutto sommato le loro azioni sono reali e spesso cariche di significato, come il progetto « Dortmund für Dortmunder », che si rivolge in maniera frontale alla crescita del neonazismo. Ma a Berlino queste azioni hanno valore prima di tutto nel loro insieme, nel peso che conferiscono alla piccola Biennale.
Solo un uomo sembra sapere davvero ciò che sta capitando qui. E’ seduto all’estrema sinistra del tavolo, la schiena curva, e si guarda le ginocchia.

Strumentalizzazione
Si è spesso parlato, tra amici o sulla stampa, dei pericoli della strumentalizzazione. Attenzione a non essere strumentalizzato. Come se non ci fosse, in ogni collaborazione umana, in ogni interazione sociale, una costante e necessaria strumentalizzazione delle parti.
Ora, questo orrore della strumentalizzazione rivela soprattutto l’illusione dell’indipendenza e dell’importanza individuale. E’ il fatto di cercare di proteggere questa leggendaria indipendenza che alimenta la passività, la sottomissione a un sistema ormai caduco.
Se la stampa ha tanto attaccato questa Biennale, è forse anche perché rimette in discussione l’importanza dell’individuo, chiave di volta di tutto il sistema dell’arte contemporanea : irriducibile personalità dell’artista, personalità del curatore, del collezionista, del critico, dello spettatore (ogni esposizione lusinga innanzitutto l’ego del suo spettatore, chiamato a giudice supremo). E’ anche per questo che i commentatori criticano direttamente Zmijewski: perché Zmijewski è identificabile, perché è l’unico appiglio che si offre a una stampa prigioniera dei nomi propri.

Tra gli altri.
Nel giornale della 7° Biennale di Berlino, l’interminabile lista degli artisti che espongono o delle persone che hanno partecipato all’organizzazione si chiude con il nome del suo curatore principale (qualcosa che comincia per Z), seguito da “and many others”. Ma il curatore può perdersi nella massa delle persone che ha lui stesso convocato, e di cui guida le scelte? E’ tuttavia l’impressione che dà, di non essere lì che per caso, di passaggio, quando lo si intravede, curvo, con lo zaino e gli occhi bassi, perso tra i visitatori nella corte della Kunstwerke, ad ascoltare gli altri più di quanto non parli lui stesso, a tirare fuori le parole con fatica. Se non lo si conoscesse non lo si noterebbe – e d’un tratto mi sembra tanto anonimo e tanto invisibile quanto quell’uomo che sparisce tra la folla, nell’ultima scena di quel famoso thriller americano, Il silenzio degli innocenti.

Tristezza
Si è un po’ abbacchiati, lasciando Berlino. Si è arrivati lì immaginando di vedere un’esposizione di arte contemporanea. Lascia raramente spazio a conseguenze, l’arte contemporanea, quando non si ha la sensibilità di una farfalla. Ma a Berlino, lontano dal silenzio a volte esasperante dei white cube, si è sentita l’eco di innumerevoli sofferenze. Tutte le opere esposte sono pesanti, utilizzano i mezzi più semplici e diretti (giornali, locandine, disegni, immagini di attualità, parola, scultura monumentale, ecc.) per trasmettere il messaggio delle necessità più dure. Così i lavori di Joanna Rajkowska, di Marina Naprushkina o di Martin Zet richiamano tutti, in un modo o nell’altro, l’enorme chiave che gli organizzatori hanno fatto venire da un campo profughi di Betlemme, e che una gru ha depositato nella corte interna della Kunstwerke.
La Biennale rifiuta tutti i luoghi comuni del buon gusto e del politicamente corretto, e la stampa non le perdonerà di realizzare finalmente quel che ogni artista considera come una missione. Non le perdonerà la sua mancanza apparente di sfumature, la sua estetica da propaganda, la retorica pungente delle sue tesi, la provocazione del suo linguaggio grafico, la massa soffocante degli scritti che produce.

Abbondanza
La quantità di testi pubblicati dalla Biennale, così come quella delle cause politiche difese, ha di che scoraggiare. Il mio amico pittore sospirava cercando invano nello spesso giornale « ufficiale » la lista dei luoghi d’esposizione. Il manifesto preliminare dell’evento, Forget Fear, pesa tanto quanto un messale.
Si sarebbe tentati di parlare di un progetto più letterario che artistico, tanto il linguaggio vi è presente – ma vorrebbe dire dimenticare che quest’abbondanza di scritti è anche l’eco grafica dell’esperienza collettiva, come nella chiesa di Pawel Althamer, in cui l’opera non ha valore che per il numero dei suoi partecipanti e il volume totale dei disegni presentati.
Ci sarebbe allora davvero un « effetto reale » di questo evento. Nel suo ultimo saggio, Tzvetan Todorov analizza una delle cause interne della malattia delle nostre democrazie : una sorta di ipertrofia del principio della libertà individuale, che atomizza le nostre società e le sottomette a degli interessi privati incontrollabili. La piccola Biennale, attraverso l’accumulo degli slanci collettivi che suscita e presenta, oppone a questo triste dato di fatto l’esempio di una resistenza.

E io?
Mi piace l’idea di unire qui la mia voce al concerto delle voci, anche se alla fine dovesse risultarne solo rumore. Le cause sono giuste, che si tratti di arte o di politica (se non fossi sicuro di essere frainteso, aggiungerei che oggi le cause sono giuste qualunque esse siano).
Non è tanto che io sia d’accordo con Zmijewski, che vede nell’azione collettiva l’unica possibile salvezza – la Biennale che dirige come un marionettista dice anche il contrario. Ci sono sicuramente delle azioni individuali che conservano tutto il loro significato… E’ nel caos della sala degli attivisti che trovo la migliore giustificazione della mia partecipazione. Sul muro in fondo, qualcuno ha scritto questa parafrasi di Beuys, con una vernice arancione : Das Schweigen ist überbewertet. Il silenzio è sopravvalutato.

Pascal Janovjak
Trad. dal francese Serena Campogrande.